In cui il dottore Gaudino, primario, fa la sua diagnosi e la famiglia di Antonio prende le prime decisioni
Il medico di famiglia suonò alla porta un’ora dopo e venne accolto da padre e madre di Antonio, mentre quest’ultimo, al suono del campanello, si era chiuso di nuovo in camera sua, come deciso di comune accordo con i genitori.
Non che credessero che il loro medico, benché primario dell’Ospedale San Lorenzo, avesse la preparazione idonea per risolvere la situazione. Quella non era situazione che si potesse risolvere in quattro e quattr’otto, né affare da medico di provincia. Ma il dottor Gaudino era persona di buon senso e, grazie alle cene del Rotary e alle conferenze di aggiornamento organizzate e spesate dall’ordine che seguiva ogni anno in giro per l’Italia, anche di ottime conoscenze; avrebbe di sicuro saputo consigliare cosa fare e indicato il nome del dottore del Nord da cui farsi visitare.
Quella era un genere di diagnosi che il dottore Gaudino non sbagliava mai, e spesso i pazienti degli altri medici andavano da lui, più che per una diagnosi alternativa, per l’occhio clinico con cui riusciva a collegare il sintomo del malato con il nome del medico, della clinica privata o dell’ospedale pubblico del Nord più adatti all’interno della sua agenda telefonica. Gaudino era quel genere di dottore, non raro in Sicilia, la cui funzione si esaurisce nel decidere se c’è bisogno del medico.
Non c’era luminare, professore universitario, primario che lui non conoscesse per nome e a cui non desse del tu. Per il dottore Gaudino, trovare un “letto libero”, anche negli ospedali più pieni, era una cosa da niente: bastava che prendesse il telefono. “Gaudino sono”, diceva per scherzare sulle sue origini siciliane con gli amici del Nord. Due risate, una domanda sulla salute della moglie, un ammiccamento su quella dell’amante, il punto sulla carriera scolastica dei figli, di cui ricordava con estrema facilità nome ed età (anche a distanza di anni), quindi “senti, ma lì a posti come siete messi?”, domandava con la bocca a culo di gallina e rispolverando il simil-nordico delle grandi occasioni, “perché avrei una mia carissima paziente…” diceva, schiacciando l’occhio alla signora che gli stava davanti, come a dire “sto parlando di lei…”, e il gioco era fatto: le corsie dell’ospedale più stipato d’Italia si sgombravano per miracolo, come le acque del Mar Rosso al comando di Mosè.
“Grazie, dutturi meu!” cinguettava subito la paziente, ammirata, guardando l’agendina del dottore come fosse il bastone del patriarca biblico, “Ma perché non si candida a Sindaco?”.
“Già, perché non mi candido?” pensava il dottore Gaudino, sentendo già sul camice bianco il peso della fascia tricolore e in tasca quello delle chiavi della città. Ma poi, dall’alto della sua magnanimità, rispondeva: “La politica non fa per me: è troppo sporca!”. E sul camice si accontentava, ogni giovedì sera, di indossare un bel grembiule e un cappuccio in uno scantinato del centro storico della città… La politica la lasciava fare al cognato, assessore provinciale con delega alla sanità, un socialista che ai tempi del “primato della politica” aveva piazzato lui come primario all’ospedale e due, tre amanti al comune.
Il dottore, prima di essere condotto in camera di Antonio, fu fatto accomodare in salotto: padre e madre volevano prepararlo a ciò che avrebbe visto di lì a poco, in qualche modo giustificarsi.
Il salotto era una stanza grande con divano in mezzo a due poltrone rivolte verso l’interno, in modo da fronteggiarsi e agevolare una gradevole conversazione. Davanti un tavolino di vetro con sopra una pletora di animaletti di porcellana di stili diversi, stratificazioni di bomboniere di comunioni e battesimi che si erano succeduti negli anni, di fronte la televisione, in un angolo il carrello con i liquori, accostato all’altra parete un trumò con specchiera e sopra un vassoio e i quattro pezzi d’argento.
Parlò il padre. La moglie si torceva le mani per la vergogna e la paura, seduta vicino a lui sul divano, singhiozzando, sospirando rumorosamente e annuendo in modo eloquente ad ogni passaggio saliente del racconto; finché il signor Saro non le chiese di preparare un caffé per l’ospite col tono mellifluo e cantilenante di chi, richiamando la moglie ai giusti doveri dell’ospitalità, intende in verità restare solo con l’ospite per poter parlare indisturbato.
Quando la signora tornò con due tazzine di caffé e qualche biscottino, trovò il medico e il marito davanti alla porta del salotto, nel corridoio, pronti per la visita. I loro visi erano tranquilli, distesi: nessuno dei due tradiva una qualche emozione.
“Già volete fare la visita?” chiese sorpresa.
“Sì, Anna, col dottore abbiamo parlato…”
“Ma… e il caffé?… i biscotti…” chiese la signora al dottore, come per dire “me li avete chiesti, e ora che me ne faccio?”, ma in verità con l’intenzione di darsi il tempo di studiare le intenzioni dei due.
“Sarà per un’altra volta, signora”, rispose il dottore con un sorriso che voleva essere di scuse ma che era di superiorità, “mi dispiace che si sia disturbata, l’avevo detto io a suo marito che non ce n’era bisogno”.
“Dai Anna, Antonio ci aspetta!” tagliò corto il signor Saro, richiamando la moglie alla serietà della situazione.
“Ma… Saro… hai raccontato tutto al dottore? Hai spiegato la condizione di Antonio?” chiese dubbiosa la signora Anna, cercando la complicità del marito.
“Certo… tutto” le rispose quello, con lo sguardo avvolgente di chi svela un nuovo complice in una terza persona, facendo capire “non ti preoccupare, il dottore è dei nostri”.
“Ma proprio tutto?” chiese ancora la donna, questa volta guardando intensamente il dottore negli occhi…
“Tutto signora, non si preoccupi, suo marito mi ha detto tu-tto… andiamo, fatemi vedere” le rispose il medico con un sorriso rassicurante. Quindi si diresse col fare risoluto dell’uomo di scienza verso la camera di Antonio e, dopo aver bussato frettolosamente, senza aspettare il via libera, entrò, lasciando padre e madre fuori dalla camera.
“Buon giorno, giovanotto!” disse Gaudino, nascondendo dietro l’usuale tono allegro la sorpresa per quell’individuo che gli si parava davanti.
“Buon giorno dottore, grazie per essere venuto” rispose Antonio con la voce di Cuffaro. Questa volta aveva aspettato il suo visitatore in piedi vicino alla finestra, dando le spalle alla porta.
Il dottore, dopo qualche secondo d’esitazione, disse: “Allora… avanti, distenditi sul letto e vediamo di capirci qualcosa”.
Antonio andò verso il letto, lentamente, quasi sfilando, dando così modo al dottore di rendersi conto della sua condizione. E mentre camminava cercava con intenzione gli occhi di Gaudino, per potervi leggere un’anticipazione della diagnosi, come l’imputato che vede rientrare la corte dalla camera di consiglio e cerca di indovinare la sentenza dalle facce. Il dottore però tenne gli occhi bassi, facendo finta di cercare all’interno della borsa da lavoro. Solo quando Antonio si fu disteso sul letto lo guardò.
“Bene”, disse con un sorriso incongruo, dopo che uno strano riflesso gli ebbe attraversato le pupille, “vediamo cosa ti senti” e iniziò a visitarlo. Lo fece spogliare, gli poggiò un orecchio dietro la schiena e gli fece dire trentatrè, lo fece tossire, controllò i riflessi di arti e occhi, la lingua, la gola, le tonsille, cuore e polmoni, lo rifece tossire, chiese da quanto tempo non andava di corpo e se seguiva un’alimentazione regolare ed equilibrata. Alla fine domandò: “Ma, insomma, tu, di preciso, che ti senti?”
“Mah… dottore… non vede come sono ridotto?” disse Antonio sbalordito, invitando con un’eloquente alzata di braccia il dottore a guardarlo nel complesso.
Ma il dottore, imperterrito: “In questi giorni hai avuto problemi di respirazione, hai avuto l’affanno?”
“L’affanno?” chiese Antonio sorpreso.
“Sì, l’affanno”, disse il dottore con la calma del detective che sa già dove andrà a parare, “il fiatone, il battito del cuore accelerato…”
“Sì, lo so cos’è l’affanno” disse Antonio stizzito. “No, non ho avuto nessun tipo di affanno”.
“Ma, insomma, cosa ti senti di strano?” chiese il dottore, tranquillo.
“Mah… dottore… mi ha visto bene?” ripeté Antonio sbarrando gli occhi, già sul punto di esplodere. Iniziava a pensare che il dottore Gaudino lo stesse prendendo per i fondelli.
Ma l’altro, tranquillo, aggiustando la mira per rassicurarlo, continuò: “Non solo questa mattina, ma anche nei giorni scorsi, hai avuto un malore?… che so, nausea, vertigini. Hai sudato senza motivo? insomma, qualche sintomo…”.
“Dottore, ma sta scherzando? Ma mi vede? Sono tutto un sintomo! Mi guardi! Guardi questa faccia, queste mani, i capelli… non sono i miei… somiglio… sono uguale sputato a questo qua!” gridò, afferrando con forza un giornale che si trovava sul comodino e iniziando a schiaffeggiare con la mano destra una fotografia di Totò Cuffaro. “Guardi, sembro un fratello gemello di questo qua! Guardi qua”, ripeté prendendo per un braccio il dottore e portandolo davanti allo specchio; quindi, prendendosi un ciuffo di capelli tra le dita, “fino a ieri sera questi erano castano chiaro ed ero un po’ stempiato… ora mi ritrovo brizzolato e con la riga da una parte!” disse, ormai esasperato. I capelli, infatti, erano il chiodo fisso del momento. Mentre i suoi genitori accoglievano il dottore, lui, non riuscendo ad interpretare nulla del fitto bisbigliare che proveniva dal salone al lato opposto della casa, aveva finito col ritrovarsi davanti allo specchio e aveva iniziato un accurato esame del suo nuovo corpo da Totò Cuffaro. Aveva cercato e trovato fra le pagine di un giornale di qualche giorno prima una fotografia dell’ex presidente della Regione Siciliana; quindi si era messo davanti allo specchio e aveva cominciato a confrontare, parte del corpo con parte del corpo, se stesso e la foto. Ebbene, in quella somiglianza straordinaria che si era venuta a creare durante la notte tra lui e l’onorevole Totò Cuffaro, ciò che più di tutto lo indispettiva - più della bocca piccola e carnosa, più del colore olivastro della pelle, più del corpo gonfio e tarchiato - ciò che più di tutto lo aveva esasperato di quell’aspetto di siciliano tipo, di quell’insieme di luoghi comuni fisici del siciliano medio, di tutto quell’insieme poco edificante ciò che d’istinto sentì il bisogno di correggere furono i capelli. Lui, Antonio, li portava all’indietro. Totò, invece, li aveva con la riga su un lato, come i bambini dell’oratorio! Antonio si era armato di pettine, poi di spazzola, quindi aveva preso il gel: niente! Per quanta energia mettesse nei colpi, dopo essersi arresi per un po’ alla forza bruta, i capelli cominciavano a muoversi come se fossero animati di vita propria e, con i movimenti impercettibili con cui si muovono gli aculei dei ricci di mare sui banchetti dei pescatori, riprendevano la posizione di prima, tornando sempre alla forma originaria: con la riga su un lato e pettinati verso destra. Antonio fu colto da un accesso di rabbia: più i capelli non rispondevano al suo volere più lui aumentava la forza e la frequenza dei colpi di spazzola, come se li volesse prendere in contropiede. Si pettinava come si striglia un cavallo. Quando poi, non si sa per quale scherzo sinaptico, ricordò la soddisfazione che aveva provato appena un anno prima, quando il poliziotto di guardia al tribunale lo aveva fatto entrare senza chiedergli i documenti, riconoscendolo come avvocato (“Si accomodi avvocato”, gli aveva detto, e lui si era sentito arrivato), la foga divenne parossismo e cominciò a darsi del “faccia di minchia” allo specchio. “Arrivato ti sentivi… è vero? faccia di minchia! Guarda dove sei arrivato… cretino… faccia di minchia… con 'sti capelli a pacchio di scimmia! Minchione! Faccia di minchia!...”. E avrebbe continuato a spazzolarsi e darsi del minchione se i passi del dottore nel corridoio non l’avessero richiamato alla necessità di darsi una calmata.
“Sì… va bene, vedo, vedo…”, concesse il dottore allontanandosi da Antonio e iniziando a riporre gli attrezzi dentro la borsa, “ma alla fin fine sei sano… sei in salute…”, aggiunse guardandosi le unghia delle mani, ma lanciando di sottecchi uno sguardo al ragazzo per vedere l’effetto delle sue parole. Quindi chiuse la borsa e uscì dalla camera, lasciando Antonio imbambolato davanti allo specchio, incapace di qualunque reazione.
Fuori dalla porta il dottore Gaudino trovò padre e madre del ragazzo. Si fermò sorpreso, come si fosse dimenticato della loro presenza: “Non vi preoccupate signora, vostro figlio è sano come un pesce, è un ragazzo robusto e intelligente… e si farà valere” disse, avvolgendoli entrambi con uno sguardo paterno.
“Ma dottore, che ha?” chiese apprensiva la madre.
“Non ha niente… ha solo somatizzato”, rispose il dottore guardando il padre negli occhi “ma il ragazzo è intelligente e si farà… non c’è dubbio che si farà” e fece un sorriso che era un complimento.
“Ma… guarirà?” chiese ancora la madre speranzosa.
“Guarire? E da che, signora?” disse il dottore, ormai sulla porta di casa “Le ripeto: suo figlio è sano come un pesce… lo faccia uscire, fatelo stare in mezzo alla gente, fatelo distrarre… state tranquilli, tutto si accomoderà…”.
“Ma dottore… e la gente?”
“La gente” disse il dottore con uno sbuffo di risata, come di solito si accoglie la domanda ingenua di un bambino, una risata quasi di compatimento “la gente signora, neanche se ne accorgerà… ha altri pensieri per la testa che questo, la gente…” e, dopo aver lanciato un’ultima occhiata di complicità al padre di Antonio se andò, senza lasciare nessun numero del Nord. Il Signor Saro, chiusa la porta, di fronte alla faccia interdetta della moglie, come fulminato da una verità che cercava da tempo, commentò: “Magari come medico non è un granché, ma come uomo non è cretino”.
Quella prima giornata non registrò altri episodi significativi. Il dottore Gaudino se ne era andato che erano ormai le cinque del pomeriggio, la signora aveva preparato il pranzo e apparecchiato la tavola come ogni giorno, mentre il marito era sceso a prendere il pane al panificio dell’angolo. Quando fu pronto, sedettero a tavola come se tutto fosse normale; l’unico momento di tensione si ebbe quando Antonio, chiamato dalla madre, entrò in cucina: la madre non poté fare a meno di trattenere il respiro e mettersi una mano sulla bocca, mentre con l’altra stringeva sul tavolo quella del marito: evidentemente il signor Saro le aveva detto di chi loro figlio era diventato il sosia in una notte. Anche lei ora ne era consapevole: Antonio, il suo Antonio, era la copia identica, dell’ex presidente della Regione Siciliana Totò Cuffaro. Dopo un momento di titubanza, Antonio si sedette al suo posto e cominciarono a pranzare.
“Antonio – disse il padre - ora chiamo lo studio e dico che tu hai l’influenza e che quindi per ora non puoi andare a lavorare, ma che tornerai il più presto possibile… il dottore Gaudino mi ha già firmato un certificato con la data in bianco e mi ha garantito il silenzio… del resto è vincolato dal segreto professionale.
Comunque, per ora non è il caso che tu esca di casa… evitiamo di spargere la voce… per quanto ne sappiamo è possibile che la situazione ritorni al suo posto e com’è venuta se ne vada - continuò il signor Saro guardando i suoi familiari per vedere se anche loro credevano in questa eventualità - Se di qua ad una decina di giorni, invece, continua… parliamo con qualcuno, partiamo… consultiamo qualche medico di fuori… insomma, vediamo…”.
Antonio e la madre guardarono il signor Saro speranzosi: quel piano approntato dal capo famiglia gli aveva dato la sensazione che tutto potesse tornare sotto controllo. Finirono di pranzare che erano le otto di sera. Quindi, esausti, decisero di andare a dormire.
Il ragazzo andò nella sua stanza e solo dopo due ore sentì il parlottare fitto proveniente dalla camera dei suoi genitori lasciare il posto al solito monotono ronzio del russare. Antonio, invece, fu sorpreso dall’alba che ancora camminava nervosamente per la cameretta, arrovellandosi alla ricerca di un perché di quella trasformazione. In testa le parole che il dottore aveva detto sulla porta di casa: “Non è niente, ha solo somatizzato!”.
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