In cui si racconta di come Antonio G., una mattina, si ritrovò trasformato nell’onorevole Salvatore Cuffaro
Fu dopo aver fatto per l’ennesima volta lo stesso sogno, che Antonio G., un lunedì di mattina presto, si risvegliò nella sua camera, in Sicilia, trasformato nell’onorevole Salvatore Cuffaro, detto Totò, ex Presidente della Regione Siciliana.
Riposava supino come d’abitudine, ma quella mattina, appena aperti gli occhi, fu scosso da un brivido che gli attraversava la schiena. Era tutto bagnato di un sudore freddo e vischioso, da malato, “Avrò la febbre” pensò, toccando il lenzuolo che gli aderiva appiccicoso al corpo. Ma quando, nel pieno del torpore che segue un sonno pieno ma non soddisfacente, alzò la testa per vedere che ora fosse, si accorse che la sua pancia era gonfia come non lo era mai stata, a tal punto da far prendere alle coperte la forma di una collinetta. Vinto, si lasciò cadere la testa sul cuscino come chi, appena sveglio, prende coscienza che lo aspetta una giornata piena di problemi e vuole concedersi ancora qualche minuto prima di affrontarla. “Cominciamo bene!” pensò, la giornata si presentava più difficile del previsto, ma tanto valeva alzarsi.
“Che mi sta succedendo?” disse a bassa voce tra sé e sé, notando la difficoltà con cui tentava di scendere dal letto. Antonio, infatti, normalmente, aveva una corporatura snella, da piccolo era stato addirittura “mingherlino”, per la disperazione della nonna paterna che vedeva in ogni magrezza, anche quella costituzionale, l’ombra della malattia.
Di solito, una volta trovato il coraggio necessario per uscire dal letto, scostare le coperte e mettere con un balzo i piedi a terra era un tutt’uno, un unico gesto atletico.
Quella mattina invece si sentì da subito impacciato, come se il suo corpo, mentre dormiva, si fosse rivestito di uno spesso strato di gommapiuma che gli intorpidiva gli arti rendendogli difficile ogni movimento e quello che di solito era un unico balzo, ora fu semplice dondolio sui glutei per poi trasformarsi in un goffo strisciare sulla schiena.
Con questi movimenti impacciati Antonio riuscì a mettere le gambe fuori dal letto e poi, facendo forza sui gomiti, finalmente a sedersi e a mettere i piedi per terra… ma proprio lì, ai margini del letto, un’altra sorpresa lo attendeva: i suoi piedi non riuscivano più ad entrare dentro alle pantofole che fino alla sera prima gli calzavano alla perfezione. Due piedi gonfi e piatti avevano preso il posto dei suoi, snelli e dall’arco perfetto, frutto di quattro anni di plantare ortopedico-correttivo portato durante l’infanzia. Ma la cosa che lo sorprese di più fu accorgersi che non solo i piedi erano diventati più gonfi, che poteva anche succedere, la cosa strana era che, a primo acchito, sembravano essere diventati anche più corti; forzando le pantofole, infatti, si accorse che dalla punta delle dita a quella delle ciabatte abbondavano più di cinque centimetri: da quanto poteva vedere, si era addormentato con dei piedi quarantaquattro e se li ritrovava quaranta/quarantuno.
Fu a questo punto, tra grattatine di testa, sbadigli e i soliti stiracchiamenti che frapponeva tra il risveglio e la volontà di cominciare la giornata, che lo sguardo di Antonio, dopo aver vagato svogliatamente per la camera alla ricerca di un perché di quelle stranezze, si posò sulle sue mani: quelle stentò perfino a riconoscerle; più volte le aprì, le chiuse, le girò e rigirò per esaminarne bene il palmo e il dorso, le avvicinò e allontanò dal viso stirando o chiudendo le braccia e alla fine giunse ad una conclusione sorprendente: quelle appese alle sue braccia non erano le sue mani!... Come avevano potuto le sue lunghe dita “da pianista” trasformarsi in una notte in quei dieci salsicciotti, grossi e tozzi, buoni solo per il sugo? E poi lui non aveva mai avuto questa peluria nera e setolosa sul dorso; le sue mani, così longilinee e nervose, erano diventate tozze e gonfie e le vene che fino al giorno prima ne attraversavano il dorso erano letteralmente ricoperte di grasso, se ne intravedevano a malapena le tracce azzurrognole, come minuscoli fiumi carsici sotterrati sotto un morbido letto di carne rosata dall’epidermide tirata come quella di un maialino da latte.
“Questa è tiroide” pensò, ormai col cuore in gola. Qualche mese prima, infatti, il fratello di un suo collega si era risvegliato con trenta chili di peso in più. “Una disfunzione alla tiroide”, avevano sentenziato i medici, e il ragazzo era tutt’ora ricoverato in una clinica del nord Italia a tentare una cura per frenare il progredire della malattia. “Ma può essere anche un’allergia a qualcosa che ho mangiato”, cercò di consolarsi… quello poteva essere semplice gonfiore; non aveva innumerevoli volte sentito raccontare a sua madre di persone che erano gonfiate tutte, dalla testa ai piedi, solo per aver mangiato dei gamberoni?
“Forse farei meglio a dormire ancora un po’, chissà che tutto questo non svanisca con il sonno”. In fin dei conti erano appena le 7.45, poteva ancora attardarsi una buona mezz’ora prima di alzarsi. L’udienza della “signora Angileri – Toyota” (un incidente d’auto) era puntata per le 9.00… aveva tutto il tempo per fare le cose con calma: verso le otto e mezzo sarebbe uscito di casa, alle nove meno un quarto sarebbe stato allo studio, il tempo di prendere le carte e controllare le mail e alle nove sarebbe arrivato in tribunale. Un po’ di sonno in più non poteva certo fargli male… tutto si sarebbe aggiustato. Si guardò la pancia: libera dalle coperte appariva in tutto il suo gonfiore, sembrava un otre, i bottoni del pigiama reggevano a stento la tensione, lasciandogli scoperto l’ombelico. “Oh, mio Dio!” disse tra sé e sé Antonio, con le lacrime agli occhi, pensando ai mesi di esami clinici, di terapie e medicine che lo aspettavano, “Oh, mio Dio!” sospirò, “aiutami Tu! fa che ritorni tutto normale!...”. Poi, come fulminato da un’idea, ma con la calma di chi, dovendo fare una puntura, dopo aver armeggiato invano con la siringa, abbia finalmente trovato la vena in cui conficcarla, disse convinto: “Pensa ai miei genitori! Ormai sono vecchi, mio padre è pure infartuato… perché dargli questa pena?… mia madre è ogni domenica a messa… loro non lo meritano!... ti prego – singhiozzò – so di non essere un buon cristiano… ma aiutami!”. Si buttò a terra sulle nuove ginocchia tonde tonde e si fece la croce due o tre volte, così velocemente che sembrò disegnare un cerchio tra fronte e petto. Chi lo avesse visto avrebbe creduto che fosse un tic nervoso.
Dopo un po’ di riflessione, finito l’esame di coscienza, biascicata una manciata di preghiere di repertorio, segnato un nuovo cerchio a mezz’aria e mandati una decina di baci equamente divisi tra il crocifisso sulla porta e il Padre Pio del comodino con il rosario attorcigliato a mo’ di Rambo, si alzò per vedere se le preghiere avevano sortito l’effetto sperato.
Sentiva una certa riluttanza ad allontanarsi dal letto, aveva la sensazione che fino a quando fosse rimasto lì, tra le lenzuola che odoravano di sapone di Marsiglia (l’inconfondibile profumo delle cose lavate dalla madre), avrebbe potuto ricacciare indietro la disgrazia che l’aveva colpito durante il sonno; allontanarsene, invece, avrebbe significato accettare definitivamente il proprio destino.
Ma alla fine, l’inquietudine e la curiosità di scoprire l’entità di quello che gli era capitato ebbero la meglio: si fece forza, si mise le pantofole, si alzò e ciabattò verso lo specchio.
Quello che vide riflesso fu: Totò Cuffaro, ex presidente della Regione Siciliana, a bocca aperta e col pigiama con cui lui, Antonio G., si era coricato la sera prima.
Alzò il piede destro e poi il sinistro, alzò e abbassò le braccia come un cavatappi, tirò fuori la lingua più volte, si toccò un’orecchia, poi il naso: quello che succedeva nello specchio corrispondeva perfettamente a quel che sentiva al tatto.
“Madonna mia! Ma com’è possibile?”, disse toccandosi la faccia con tutti e dieci i polpastrelli. Le guance paffute con i due piccoli segni a delimitare il confine superiore che le divide dagli zigomi, la bocca piccola e carnosa, la caratteristica fossetta sul mento, le orecchie grandi e rosse quasi a segnalare la pressione, il naso grosso e carnoso, gli occhi piccoli, con le palpebre a mezz’asta, la carnagione olivastra, l’espressione insignificante di tutti i siciliani di potere… quella che faceva le smorfie, usciva la lingua, quella che toccava con le mani, o meglio, “si” toccava, era la faccia di Totò Cuffaro ma era anche lui: Antonio G.!
“è solo la mia immaginazione… è meglio che dormo ancora un po’… poi sarà tutto finito” si disse, assaporando già il senso di liberazione e di rilassatezza che avrebbe provato al risveglio, quando quell’assurda situazione sarebbe senz’altro svaporata. “Com’è arrivata se ne deve andare… com’è arrivata se ne va, com’è arrivata se ne va… ”, disse tre volte a denti stretti per farsi coraggio, ripetendo come fosse un incantesimo la frase con cui suo nonno, quando si ammalava, usava rifiutare ostinatamente le medicine che i figli gli volevano somministrare. Il nonno le considerava tutte indistintamente “dei veleni che per farti finire il raffreddore ti ammazzano… lasciate fare alla natura… quanto ci vale il letto!… il letto risolve tutto! ci vuole tempo, ma risolve tutto… pure sotto i bombardamenti io mi mettevo a letto… e sono ancora qua…”, argomentava cocciuto. Il nonno non credeva nemmeno a colesterolo, trigliceridi, e “cose di questo genere”, “tutte minchiate! cose per vendere i medicinali” diceva sdegnato, pronunciando la parola “medicinali” come se dicesse “cianuro”, ricordò Antonio con un sorriso. Solo in una cosa credeva il nonno: “La zuccarina”, il diabete, questo sì, “malattia tinta” che ti fa “infradicire dall’interno”.
Che avrebbe detto il nonno di quello che gli stava capitando? Doveva mettersi a letto oppure gli era capitata una di quelle malattie serie che fanno “infradicire dall’interno”? “Il letto” diceva il nonno.
E Antonio così fece: con la faccia all’insù, le braccia sopra le lenzuola e parallele al busto, si distese in attesa del sonno, con un sorriso indefinibile sulle piccole labbra carnose… e che il nonno, pace all’anima sua, vegliasse su questo povero nipote disgraziato.
Il sonno, inaspettatamente, arrivò subito, profondo.
Fu la voce della madre a svegliarlo.
“Antonio! Antonio! Svegliati, non la senti la sveglia che suona!? Sono le nove! Alzati!” le sentì dire a voce alta e petulante da dietro la porta della camera, mentre attraversava il corridoio per andare in cucina.
Solo allora avvertì la vibrazione e lo squillo ripetuto del telefonino che gli faceva da sveglia. Lo spense, ancora tutto stordito dal sonno; quanto aveva potuto dormire? Mezz’ora? Un’ora? Guardò l’orologio: erano le 8.30, aveva dormito mezz’ora circa, “Il solito vizio di mia madre di esagerare pure nel dire l’ora!” pensò, col fastidio che danno i vizi quotidiani delle persone con cui convivi da tanto tempo, e si lasciò ricadere sul cuscino. Stava quasi per riaddormentarsi quando un pensiero lo fece sollevare di colpo con gli occhi sbarrati in un’espressione di vero e proprio panico: le 8.30! la signora Angileri! Il tribunale! L’udienza! Alle nove doveva essere in tribunale ed ancora non si era neanche lavato. Doveva assolutamente alzarsi!
Proprio in quel momento, il suo viso riflesso sul vetro del portafotografie sul comodino e il ciabattare della madre vicino la porta della camera lo riportarono alla realtà come uno schiaffo: balzò di furia dal letto e chiuse a chiave la porta della camera, appena in tempo prima che la madre spingesse la maniglia per entrare.
“Antonio, alzati, ho messo il caffè sopra… ma che hai stamattina?... è tardi… Non dovevi andare in Tribunale?!” disse la madre, facendo forza sulla maniglia, “Che hai? Stai male?... ma… ma… - balbettò facendo ancora forza per aprire - ma che è questa storia? Perché ti sei chiuso a chiave? Sbrigati, che devo fare il letto e poi devo andare a fare la spesa!”, e così dicendo la madre si allontanò in direzione della cucina. Antonio, che era stato per tutto il tempo immobile, appiattito con la schiena contro lo stipite sinistro della porta (chissà perché poi: la porta era interamente di legno e da fuori non si potevano vedere neanche le ombre), tirò un sospiro di sollievo e corse di nuovo davanti allo specchio per accertarsi se la situazione, nel frattempo, si fosse normalizzata. Ma lo specchio confermò: lui era ancora Totò Cuffaro! “Incredibile!” pensò, toccandosi ancora la faccia: ma come era possibile? Come gli era potuta accadere una cosa del genere? Per essere un sogno, non lo era, ormai si sentiva del tutto sveglio ed era pienamente cosciente di tutto ciò che accadeva nella casa: sua madre era in cucina che preparava il caffé e aveva sentito suo padre entrare in bagno (poteva ancora sentire il rumore da piccolo ippopotamo che faceva con la bocca quando si sciacquava la faccia). No, non era un sogno.
Nella sua camera non vedeva nulla di nuovo. Sulla scrivania il computer portatile era ben visibile dentro la borsa da lavoro lasciata aperta per inserirvi gli appunti e il caricabatterie del telefonino all’ultimo minuto. Sopra la borsa, la carpetta “Angileri-Toyota”; sparse sul piano, le fotocopie riguardanti altre cause, in attesa che lui si decidesse a fare ordine. Sullo schienale della sedia pendeva il maglioncino rosa che si era tolto appena tornato dal pub la sera prima. I pantaloni e le mutande piegati sull’altra sedia vicino alla porta; la camicia, una delle sue preferite, una Lacoste bianca con righe verticali rosa e marrone chiaro, pendeva da una gruccia appesa al pomello dell’armadio. Tutto era come lo aveva lasciato la sera precedente, prima di andare a letto.
Anche la finestra che dava sul cortile era come la sistemava lui per la notte: le imposte interne chiuse, la serranda lasciata lenta in modo che passasse un po’ di luce dalle fessure di sopra.
Questa camera non è ordinata, è ordinaria pensò con un sorriso amaro Antonio. Ma allora come era possibile questa pazzia che gli stava succedendo? E, come imbambolato, si toccò di nuovo la faccia.
Anche la barba era sparita, notò con sorpresa: la sera prima era andato a dormire con l’intenzione di ritoccarsela l’indomani mattina; quella barba era, da due anni, motivo di discussione con i parenti più anziani, fautori indefessi della “faccia liscia come il culo di un picciriddu”.
Le guance ora erano bianche, lisce e paffute come quelle di un bambolotto; e l’assenza di qualsiasi ombra di peluria faceva pensare, più che ad una rasatura a fondo, ad una definitiva sconfitta degli ormoni della crescita: non un filo di barba sembrava aver mai abitato quelle guance, né sembrava essercene possibilità in futuro.
Poteva essere una malattia psicosomatica, pensò, già da qualche giorno avvertiva dei fastidi: la palpebra destra, per esempio, ogni tanto tremava… e poi quel sogno che si ripeteva sempre uguale ormai da due mesi… deve essere stress, si disse, qualcosa legato alla vita che conduco da quando sono tornato. Perché non sono rimasto a Bologna a fare il praticantato? Chi me lo ha fatto fare? Sono voluto tornare… e ora eccomi qui, servito… a Bologna non sarebbe successo!... al Nord queste cose non succedono…
E riprovò ancora quella sensazione, quel misto di vergogna e impotenza, quella vertigine esistenziale che gli faceva digrignare i denti ormai da più di un anno, quando cercava di fare il bilancio di quello che aveva imparato durante gli anni di praticantato, quei due anni di nulla passati a fare fotocopie e compagnia in macchina all’avvocato nelle sue trasferte a Palermo, quei due anni che invece sarebbero dovuti servire ad imparare come si fa l’avvocato… due anni a mimare la professione con il vestito blu, la cravatta, la borsa da lavoro in pelle, gli occhiali griffati, a parlare di “procedimenti”, di “procedure”, di “un caso che sto seguendo” con gli altri praticanti, fuori dal tribunale… Che senso ha?
“Antonio, che hai? stai male?... perché non apri?” sentì dire piano a sua madre, dietro la porta “dai, sbrigati, vai in bagno che si sta facendo tardi e il caffé è pronto… ti preparo il latte, esci…”. Alla parola caffellatte la sua pancia brontolò così forte che sua madre riuscì a sentirla: “Ma stai male di stomaco? Antonio apri!” e stava scuotendo la maniglia della porta quando iniziò a squillare il telefono di casa. Questi saranno quelli dello studio, pensò Antonio e infatti sentì sua madre dire:
“Sì, Antonio è appena uscito di casa… ha avuto un contrattempo, ma fra poco sarà lì”.
Come previsto, telefonavano dallo studio dell’avvocato Casano per ricordargli dell’udienza delle nove.
Antonio guardò l’orologio: erano le nove e dieci! ormai non ce l’avrebbe fatta. Il giudice Ingoglia, che presiedeva l’udienza, non ammetteva ritardi e molto probabilmente a quest’ora aveva rimandato tutto a data da destinarsi, fra tre, quattro settimane, se non addirittura fra qualche mese; di sicuro Giacomo, l’avvocato della controparte, un suo coetaneo, aveva approfittato della sua defezione per convincere il giudice delle ragioni del suo cliente; Giacomo era bravissimo in queste situazioni, lui sì che era tagliato per quel lavoro. “Il processo è come il poker - gli aveva detto una volta mentre erano soli nello spogliatoio, prima di una partitella a calcetto tra avvocati - non contano le carte, conta conoscere chi hai davanti… i giudici hanno troppi processi a cui badare, come possono ricordarsi di tutte le cause? È lì che interviene l’avvocato, è l’avvocato che disegna il processo e lo indirizza”.
Sentì sua madre chiudere il telefono e ritornare verso la sua camera.
Che scusa avrebbe potuto prendere con l’avvocato Casano? Perché sua madre aveva detto che era già uscito e che tra poco sarebbe arrivato? Forse era meglio telefonare subito e parlare con Laura (era stata sicuramente lei a chiamare), la nuova ragazza che, dall’alto del suo centodieci e lode in giurisprudenza, entrata da praticante, faceva da segretaria all’avvocato e a tutti i praticanti anziani ormai da tre mesi, naturalmente gratis.
Nel frattempo sua madre era tornata all’attacco: “Antonio, apri! Hanno telefonato dallo studio, devi andare subito in tribunale, ho detto che eri già partito, ti aspettano… Antonio, perché non rispondi? Stai male?”
“Non ho niente mamma… non ti preoccupare”, rispose piano Antonio, appiccicato alla porta, ma subito si portò la mano destra davanti alla bocca, impaurito. La voce che gli era uscita, infatti, era una voce da preadolescente, acuta nei toni alti e fessa in quelli bassi, una voce quasi bianca, ma con tutte le “natalità” e le durezze delle voci adulte. Quella voce era uscita dalla sua bocca e aveva messo in suoni ciò che lui aveva voluto dire, ma non era la sua voce. Non ci volle molto a riconoscerla: era un timbro familiare, che in quei due anni di permanenza in Sicilia Antonio aveva avuto modo di ascoltare quotidianamente alle edizioni regionali del Tg3: era la voce dell’ex presidente della Regione Siciliana, era la voce di Totò Cuffaro.
“Ma chi ha parlato? Antonio, chi c’è lì con te? Apri!” urlò allarmata la madre. Ma Antonio si guardò bene dal risponderle. “Oh, mamma mia!” pensò, con la mano ancora sulla bocca e gli occhi sbarrati, “anche la voce mi è cambiata”, ma non ebbe il tempo di riflettere sul nuovo sintomo che sentì bussare energicamente alla porta: “Antonio apri! che è questa storia?”, disse il padre, “Stai facendo disperare tua madre! È qui che piange”. Silenzio.
“Ma che ha?” chiese il marito alla moglie.
“Non lo so… non vuole aprire… forse sta male… ha una voce che non sembra la sua…” rispose quella, tornata un po’ in sé per evitare che il marito si inquietasse con il figlio.
“Avanti Antonio, apri” ripeté il padre, tornando a forzare la maniglia. “Ma che ti senti?… hanno chiamato anche quelli dello studio…”
“Al diavolo lo studio!” gridò Antonio esasperato.
“Come al diavolo lo studio? Che vuol dire al diavolo lo studio? Apri questa porta! Antonio! fai la persona seria! Hai trent’anni!” si riscaldò il padre. Poi, dopo qualche secondo, vedendo che dall’altra parte non arrivava nessuna risposta, cambiò tono in modo da portare il figlio a più miti consigli: “Antonio, ma che hai? Stai male? Se non vuoi andare al lavoro ci parlo io con l’avvocato Casano… se è per questo non ti preoccupare… ma adesso apri… stai facendo preoccupare tua madre”.
“Ma chi se ne frega dell’avvocato Casano! Che vada al diavolo lui e il suo studio! Sono due anni che mi prendono per il culo, papà!” rincarò la dose il ragazzo, gridando con una voce così acuta e nasale che sembrava stessero scannando un maiale.
“Ma che sono ’ste minchiate?” si riscaldò di nuovo il padre e, scuotendo la porta con forza, “Antonio! Apri! O sfondo la porta!” disse, dando una spallata dimostrativa.
“Non si rendono conto di nulla! Fosse per loro la recita continuerebbe per sempre! L’importante è che la gente per strada mi chiami “avvocato”! Per loro questo è l’importante… e come si riempiono la bocca con le parole “studio”, “avvocato”, dicono “l’Avvocato Casano” come dicessero “il Padreterno”! Se poi io mi alzo e mi ritrovo ridotto così…”, bofonchiava tra sé e sé il ragazzo camminando nervosamente davanti alla porta, senza più fare attenzione che dall’altra parte non lo sentissero.
“Ma che ha? È successo qualcosa al lavoro?” si informò il signor Saro con la moglie.
“No, no, fino a ieri sera era tranquillo… anzi era tutto contento della causa importante che gli hanno affidato allo studio… ti dico che sta male… non l’hai sentito che voce che ha?”
“Antonio…Vuoi che chiamiamo il dottore?” chiese allora il padre da dietro la porta.
“No! Il medico no!” gridò spaventato Antonio, come risvegliandosi dal torpore, e poi, riprendendo il controllo e cercando di imitare la sua voce originale, “non ce n’è bisogno, passerà, lasciatemi da solo, ora esco”.
“Ma che vuol dire passerà?” Sei in ritardo al lavoro! Che cosa penseranno allo studio? Non lo capisco! È uscito pazzo?” chiese il padre alla moglie, come se anche lei facesse parte del complotto. “Ma che figura ci fa con l’avvocato? voglio proprio vedere quando avrà una famiglia, delle responsabilità…”, disse rivolto alla moglie, ma per farsi sentire dal figlio. “Poi gli finisce il gioco… gli pare che la bella vita può durare per sempre… gli pare che uno si alza la mattina e decide di non andare a lavorare… così, ad minchiam!”
“Ma non si sente bene, Saro… non hai sentito che voce?” disse la madre supplichevole, cercando di calmare il marito.
“Ma quale male e male!… sono capricci… e tu sempre a difenderlo… a giustificare… io, alla sua età, avevo già un figlio! Te lo ricordi? Comunque: la vita è sua… io il più l’ho fatto… arrangiatevi!” disse con tono conclusivo.
E stava per andarsene, quando si sentì girare la chiave: “Va bene… apro, ma allontanatevi” disse Antonio, perentorio, socchiudendo la porta in modo da vedere i genitori senza che questi lo potessero vedere. “Questa notte mi è successa una cosa… una cosa incredibile… datemi un secondo, aspettate lì, ora vi faccio entrare… solo voi mi potete aiutare”. Si guardò intorno, poi si sedette sul letto, con la faccia rivolta verso la porta. Una grossa ruga gli solcava la nuova fronte da bambolotto potente dalla pelle olivastra.
I suoi genitori lo avrebbero accettato? Avrebbero capito la sua situazione? Gliene avrebbero fatto una colpa?... Certo, alla fine lo avrebbero accettato… era sempre loro figlio. “Ora potete entrare, ma non spaventatevi…” disse piano, ma ormai deciso ad arrendersi al proprio destino.
I genitori aprirono la porta con circospezione, al rallentatore. “Oh, Madunnuzza mia!” fece la madre appena mise a fuoco, portandosi la mano sulla bocca e stringendosi al braccio del marito. Il padre, invece, pur impallidendo per la sorpresa, istintivamente si guardò attorno alla ricerca di qualcosa con cui difendersi, in caso quell’intruso li avesse attaccati.
“Chi è lei? Che ci fa in camera di mio figlio?” chiese gelido, cercando tracce del figlio, ma cercando anche di capire le intenzioni di quell’estraneo dall’aspetto così familiare.
“Papà, sono io, Antonio… sono tuo figlio… non so cosa m’è successo, mi sono svegliato così… non so spiegare…” rispose il Totò Cuffaro seduto sul letto di Antonio, cercando di essere il più convincente possibile, ma anche lui palesemente guardingo, il sudore che per la tensione gli imperlava la fronte. E poi, con la voce tremante, “Mamma credimi, sono io… tuo figlio! aiutami!”, disse supplichevole, “non so cosa mi sta capitando… mi sono svegliato così… Non ho fatto niente di male! Aiutatemi!” singhiozzò.
La madre si accasciò sulla sedia vicino alla porta e si mise a piagnucolare piano piano. Anche Antonio, appresso a lei, si mise a piangere di un pianto disperato.
La madre, improvvisamente, lanciò un urlo e corse a consolarlo: “Povero figlio mio! Povero figlio mio!”.
L’abbraccio della madre fu per Antonio un vero e proprio balsamo, si sentì subito invadere da un tepore pieno, dolce e vischioso, come se gli avessero versato una colata di miele sopra… un senso di tenerezza infantile. Iniziò a singhiozzare come un bambino che si è perso nel bosco e poi ritrova i genitori, strinse la madre forte forte e la baciò sul viso, sulla fronte, le annusò il collo, invaso da un senso di dolcezza che era contemporaneamente quella di chi protegge e quella di chi è protetto. La strinse forte, fino a quando non sentì la madre lamentarsi: “Ahi!”. Solo allora la scostò da sé in modo da vederne il viso pieno di lacrime. E lei, accarezzandogli la faccia con tutte e due le mani e asciugandogli le lacrime, con un sorriso mogio mogio, che avrebbe dovuto infondergli coraggio, gli ripeteva cantilenante, come quando da bambino lo confortava dopo una caduta: “Si aggiusterà tutto, non ti preoccupare, è la vita… è la vita…”.
Il padre, sempre sulla porta, guardava il figlio imbambolato. Aveva finalmente capito perché quell’estraneo gli era sembrato un viso conosciuto, familiare, persino la voce corrispondeva. Eppure quell’uomo era anche suo figlio. Ma com’era possibile? Incontrò lo sguardo interrogativo di Antonio. “Chiamo subito il dottore” disse, cercando di prendere in mano la situazione.